Lumina n. 41

14 Lug 2025

Quando il ruolo assorbe tutto: riscoprirsi genitori e persone

Ho incontrato Chiara in un momento di stanchezza che lei definiva “lucida ma cronica”. Non era un esaurimento nervoso né un burnout esplosivo. Era una forma di sfinimento silenzioso e costante, in cui tutto apparentemente funzionava. Suo figlio aveva da poco ricevuto una certificazione per alto potenziale cognitivo, e Chiara, da madre attenta, si era immersa anima e corpo in un vortice di letture, webinar, colloqui, tentativi quotidiani di decifrare ogni comportamento, ogni reazione, ogni oscillazione emotiva. I docenti le scrivevano spesso, gli specialisti le proponevano strategie, gli altri genitori la guardavano con un misto di ammirazione e distanza. Era diventata, in poco tempo, il punto di riferimento per capire cosa significasse crescere un figlio “differente”. Ma allora perché, in quel momento, si sentiva svuotata?

Questa condizione ha un nome, anche se non compare nei manuali diagnostici: overidentification with role – sovra-identificazione con il ruolo. Accade quando l’identità personale si appiattisce su un solo ambito – in questo caso, quello genitoriale – in un processo graduale ma totalizzante. È particolarmente frequente nei genitori di bambini gifted, perché la complessità del profilo del figlio porta a una richiesta continua di vigilanza, presenza, supporto. E quando ciò che sappiamo fare meglio – capire, anticipare, proteggere – diventa anche l’unico spazio in cui esistiamo, qualcosa dentro comincia a cedere.

Quando Chiara mi ha detto: “Se mio figlio un giorno non avesse più bisogno di me, non saprei più cosa rispondere alla domanda ‘Chi sei?’”, non stava mettendo in discussione l’amore per suo figlio. Stava cercando sé stessa oltre la funzione di madre specializzata. Quel senso di vuoto identitario è stato descritto anche in letteratura: si parla di role engulfment (Thoits, 1983), ovvero il processo per cui un unico ruolo – madre, caregiver, figura di riferimento – assorbe tutti gli altri aspetti dell’identità, fino a cancellarli dalla percezione di sé.

E nelle madri neurodivergenti, o che crescono figli ad alto potenziale, questo rischio è amplificato. Non solo per l’iper-responsabilità che le accompagna, ma per l’intensità con cui vivono le sfide relazionali, cognitive, educative. Come ha scritto Kazimierz Dabrowski nella sua teoria della disintegrazione positiva, una delle fatiche più grandi delle persone ad alto potenziale è costruire un’identità che non si riduca a un ruolo funzionale o sociale. Per Chiara, questo significava riuscire a esistere anche al di là della sua capacità di essere madre, filtro, interprete, consulente, osservatrice.

Quello che è emerso con lei mi ha riportata a una domanda che accompagna tante madri di figli gifted e – spesso – a loro volta neurodivergenti: “Chi sei, se non stai aiutando?”
Una domanda scomoda, perché va a toccare la radice di una costruzione identitaria in cui si è riconosciute e amate solo quando si è utili.

Chi è cresciuta ricevendo conferme solo quando aiutava, accudiva, facilitava, impara molto presto che il proprio valore passa attraverso l’effetto che ha sugli altri. E questo modello si riproduce in modo perfetto nella genitorialità ad alta complessità: ogni successo del figlio sembra una prova della propria competenza, ogni difficoltà una misura del proprio fallimento. Ma a che prezzo?

Così, nel tempo, anche la maternità può diventare una moneta di scambio: qualcosa che uso per ottenere approvazione, appartenenza, senso. E proprio come accade con la giftedness funzionale – dove l’essere ad alto potenziale viene incanalato unicamente in ciò che è utile, socialmente spendibile, razionalmente valido – si rischia che tutto ciò che non è spendibile, misurabile, utile… venga silenziato.

E allora? Allora il primo passo, con Chiara, non è stato fare qualcosa di nuovo. Ma ricordare qualcosa di dimenticato.

Le ho proposto un esercizio semplice ma profondo: scrivere – su un foglio diviso in quattro – le cose che amava fare prima di diventare madre. Le attività iniziate e mai finite. Le cose che avrebbe voluto provare e non si era mai concessa. Quelle che faceva con piacere, e che aveva lasciato cadere per “mancanza di tempo”.
Questa volta, però, doveva creare una mappa, non un piano di azione da madre efficace: una mappa dell’identità oltre il ruolo.

I primi giorni sono stati faticosi. “Non ho niente da scrivere”, mi ha detto. Poi, come spesso accade, la memoria ha iniziato a parlare: il desiderio di riprendere a cantare, una volta a settimana. La passione per la ceramica, che aveva scoperto a vent’anni. Il piacere di camminare da sola, senza dire niente a nessuno, solo per sentire i propri pensieri diventare suono.

Da lì non è nato un progetto, ma una presenza nuova. Chiara ha iniziato a ritagliarsi mezz’ora in cui non c’era figlio, scuola, consulente, programma. Solo lei. Non per “ricaricarsi”, ma per non perdersi. Perché il punto non è prendersi cura per poi ripartire più cariche: il punto è restare intere, vedendosi e dandosi spazio anche nelle piccole cose sciocche che ci piacciono, mentre ci si prende comunque cura di un altro da sé.

👉 Se ti sei riconosciuta in queste parole, inizia anche tu da lì. Non da ciò che manca, ma da ciò che è rimasto sepolto.
Scrivilo. Guardalo. Tienilo vicino, come una fotografia sbiadita ma ancora leggibile.
E chiediti: chi sei, quando non stai aiutando nessuno?

“Non si tratta di trovare sé stessi, ma di ricordarsi.” – James Clear


🧠 Diario di bordo

– Non devi smettere di essere madre. Ma puoi smettere di esserlo sempre e soltanto.
– Esisti anche quando non stai spiegando, prevenendo, facilitando.
– Se tuo figlio ha bisogno di qualcuno che sia libero, creativo e autentico, la prima persona da cui iniziare potresti essere tu.
– Il tempo che dedichi a te non è sottratto a lui. È un modello di equilibrio, che insegna più di mille parole.
– Non cercare subito un piano, cerca la tua voce. Quella che tu conosci molto bene ma forse gli altri molto meno.

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Le storie che racconto qui arrivano da percorsi reali di coaching che ho seguito nel tempo. Le parole sono quelle che abbiamo davvero detto, o quasi, perché le ho trascritte cercando di restare fedele al senso e alla voce di chi le ha pronunciate. I nomi e qualche dettaglio, invece, li cambio sempre: proteggere la riservatezza di chi si affida a me è parte del mio modo di lavorare.

Lumina è la newsletter in cui ti racconto il mondo gifted dal punto di vista di chi gifted lo è e ha fatto della sua neurodivergenza uno strumento per aiutare altri gifted. Troverai storie ed esperienze, mie e delle persone che si affidano a me. Idee, suggerimenti, qualche strategia e molti fallimenti. Sentiti a casa, mettiti comodo e comoda, vuoi un caffè? Buona lettura!

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