“Hai preso 30 e lode”: non mai solo questo il punto
Ho incontrato Francesco mentre preparava l’ennesimo esame. Brillante, preciso, velocissimo nell’apprendere, ma con quell’aria stanca tipica di chi non si concede mai tregua. Mi ha raccontato che aveva appena preso 30 e lode, di nuovo, ma invece di sentirsi sollevato si sentiva… vuoto. Non triste, non frustrato: svuotato.
“È che non mi basta più,” mi ha detto. “Appena finisco una cosa, ne devo subito iniziare un’altra. Un altro corso, un’altra certificazione, un altro passo avanti.” Ha riso, ma poi si è fermato un attimo. “Solo che non so più avanti verso dove.”
Abbiamo lavorato insieme per qualche mese. Il primo nodo è stato proprio lì: in quella sensazione continua di inseguire qualcosa che non si lascia mai afferrare. Non è ambizione, e neanche ansia da prestazione. È come se Francesco non potesse mai restare in ciò che ha appena raggiunto, perché l’unico modo per sentire di valere è già essere altrove.
Eppure, nel nostro lavoro insieme, ho scoperto che non era la corsa il problema. Era il fatto che non c’era mai un punto di contatto con sé. Correre va bene, ma se non sai cosa porti con te, anche il traguardo più brillante può sembrarti irrilevante.

Quello che è emerso con Francesco mi ha riportata a una domanda che accompagna tante persone neurodivergenti – e su cui torno spesso anche qui: chi sono, se smetto di eccellere?
Non è una domanda teorica. È una di quelle che si sente nel corpo, nei muscoli tesi quando si sbaglia qualcosa, negli occhi che cercano una conferma subito dopo aver parlato, nei momenti in cui si ha paura che un voto “non abbastanza alto” possa cancellare tutto il resto.
Per molti gifted, il riconoscimento arriva presto e prende la forma di un voto, di un applauso, di una frase detta dagli adulti: “che intelligente!” – e da lì in poi l’identità si costruisce su quel parametro. Si impara che “bravo” coincide con “perfetto”, e che ogni deviazione va sistemata in fretta, o almeno nascosta.
Solo che a un certo punto qualcosa si rompe. Non perché si diventa meno capaci, ma perché la misura esterna non basta più a tenere insieme la fatica interna.
Si continua a ottenere risultati, ma non fanno più da collante. La stima verso sé stessi – quella che quando crolli ti rimette in piedi facendoti capire che ce le hai davvero le carte giuste per riuscire, anche questa volta – non arriva, o se arriva rimane per poco. Ed è lì che nasce una riflessione molto scomoda: posso valere anche se non sto performando? Posso esistere anche se non sto dimostrando nulla?
È una soglia sottile. Chi la attraversa sa che non si torna più indietro. Ma sa anche che, da quel momento in poi, si può iniziare a cercare un senso che non dipenda solo da ciò che si fa bene.

Siamo immersi in contenuti che, più o meno apertamente, ci invitano a trasformare la nostra vita in un portfolio – e questo è valido per tutti, ovviamente. Ci dicono che ogni competenza va monetizzata, ogni esperienza va raccontata, ogni progetto deve diventare una tappa misurabile.
È il nuovo linguaggio dell’efficacia: se non puoi dimostrarlo, allora forse non esiste. Se non serve a qualcosa, allora forse non vale. Ma raramente – quasi mai – ci viene chiesto davvero che cosa ci muove, al netto dei risultati, al di là di chi ci applaude.
E allora accumuliamo. Senza accorgerci che, spesso, quella fame di “di più” non è desiderio ma paura. Paura di non bastare, di non essere visti, di perdere quella presenza su diversi palcoscenici che ci ha garantito, per anni, uno spazio nel mondo.
Ma non sei il tuo CV. Non sei la media dei tuoi voti. E nemmeno le tue giornate migliori.
E se non inizi a ricordartelo, succede qualcosa che nel tempo genera un’identità che non ti appartiene, perchè cominci a vivere inseguendo qualcosa che non esiste davvero.
Un’idea di te che non hai scelto, l’immagine idealizzata di chi, da fuori, ti sembra “funzionare meglio”, un futuro che ti sei costruito sulla base di aspettative, ma che potrebbe non reggerti quando ti ci appoggi davvero.
È come camminare con sicurezza… su fondamenta di sabbia. Serve solo un’onda per far crollare tutto. E non sarà il fallimento a farti male, ma il fatto di non sapere più da dove ricominciare.

Un esercizio che propongo spesso – e che ho fatto anche con Francesco – è semplice solo in apparenza.
Pensa a tre cose che sai fare bene, non quelle che gli altri ti riconoscono, o quelle che ti tornano utili per un concorso, per un cliente, per qualcosa che vuoi ottenere. Ma quelle in cui ti senti dentro, che quando le fai il tempo cambia consistenza e la fatica non pesa perché arriva insieme a una strana forma di leggerezza.
Quelle attività che non cerchi di migliorare, ma che ti portano – mentre le fai – esattamente dove vuoi stare.
Scrivile, di pancia, senza pensarci troppo. E poi guardale con onestà: da quanto tempo non le fai davvero?
Spesso le mettiamo da parte perché “non servono”, non fanno curriculum, non sono monetizzabili. Ma forse è proprio lì che si nasconde la parte più viva di noi. Quella che non ha bisogno di essere spiegata. Quella che non richiede pubblico.
Quella che, anche nei momenti in cui tutto il resto vacilla, ci restituisce qualcosa che non si può tradurre in risultati. Ma che ci ricorda che siamo ancora interi.

Non so quale sia la tua frase-bussola. Magari non l’hai mai detta ad alta voce, o forse non l’hai nemmeno mai scritta. Ma c’è qualcosa da cui, in mezzo a tutte le deviazioni, ti ritrovi a passare ogni volta, come una strada interiorizzata nel tempo.
E’ quel modo di esserci che non ti abbandona, anche nei momenti in cui ti sembra di esserti allontanato da tutto.
Cosa dice di te, quella costanza? Dove porta, davvero?
A volte non serve reinventarsi. A volte basta rallentare abbastanza da riconoscere quello che c’è già, che resiste sotto tutto il rumore, e che ti parla piano.
“Non si tratta di trovare sé stessi, ma di ricordarsi.”
James Clear
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