Lumina n. 11

16 Dic 2024

Il burnout dell’elefante ipervigile

Essere gifted viene spesso associato a una straordinaria motivazione, creatività e capacità di grandi imprese. E, in molti casi, è vero: c’è in noi un’abilità naturale di immaginare scenari futuri, intuire dinamiche complesse e attivarci per costruire soluzioni o prevenire problemi.

Tuttavia, questa spinta incessante verso ciò che è avanti nel tempo e nello spazio può portare a una forma di esaurimento che, per primi, i gifted non sanno sempre riconoscere finché non è troppo tardi. Essendo sempre “pronti” ad affrontare sfide, a superare ostacoli e a soddisfare le aspettative altrui, molti di noi finiscono per sovraccaricarsi e trascurare il proprio benessere.

Il risultato? Un ciclo di sovraccarico emotivo e mentale che spesso sfocia nel burnout. E quando il corpo o la mente cercano di mandarci segnali – perdita di motivazione, difficoltà a concentrarsi, irritabilità – tendiamo a ignorarli o, peggio, a compensarli aggiungendo ancora più impegni.

Pensa meno, agisci di più

Quando ho incontrato Malìa, una giovane professionista gifted, mi ha detto qualcosa che mi è rimasto impresso: “Voglio imparare a pensare meno alle richieste che ricevo e concentrarmi di più su come portarle a termine”.

Il suo problema? Ogni compito diventava per lei un rompicapo, un’analisi infinita di tutte le possibilità e variabili, esplicite e implicite. La sua mente era come una macchina perennemente accesa, capace di anticipare ogni scenario e di elaborare strategie sofisticate. Poco importava se poi le cose avvenivano come aveva immaginato: tutte le energie che impiegava in quell’incessante rimurginamento – anche durante il tempo libero – la stavano esaurendo.

Esplorando insieme il suo lavoro, abbiamo individuato un elemento chiave: da una parte, il contesto in cui si trovava non le permetteva di ricaricarsi come le serviva. Dall’altra, lei stessa non aveva mai definito limiti chiari, a lei e agli altri, impostando dei veri tempi di disconnessione.

Da gifted, la sua ipersensibilità era messa continuamente alla prova da interazioni incessanti e da un ambiente che richiedeva la sua attenzione costante. Con il tempo, aveva iniziato a chiedere sempre di più a se stessa: essere più performante, più presente, più disponibile.

Questo l’aveva resa un punto di riferimento indispensabile per i colleghi, ma anche intrappolata in un circolo vizioso. Più responsabilità accettava, più le aspettative aumentavano, e meno spazio aveva per sé.

Quando le ho chiesto: “Cos’è che non hai ancora fatto e che, se iniziassi oggi, migliorerebbe del 20% la tua situazione?”, Malìa non ha parlato di delegare o prendere una pausa. La sua risposta è stata semplice ma potente: “Darmi il permesso di fermarmi”.

Se lo ignori, non andrà via: sarà sempre il tuo elefante nella stanza.

Quando evitiamo di inserire nella programmazione annuale momenti di stacco, dalle vacanze di breve, media e lunga durata alle giornate in cui non facciamo nulla che abbia a che fare con la produttività.

Quando non impariamo a prestare attenzione ai primi sintomi di stanchezza fisica e mentale, a come e quanto davvero dormiamo bene, alla fatica di concentrarci che ci impedisce di finire una pagina di un libro o una puntata di una serie senza tornare a pensare a quel lavoro o a cosa potremmo rispondere a quel cliente domani.

Quando ignoriamo tutto questo, e la “sindrome del perfetto multitasker” diviene il live motive delle nostre giornate, ecco che anche abbiamo costantemente la mente impegnata a risolvere problemi, analizzare conversazioni passate o preoccupazioni future.

Ed è proprio l’incapacità di vivere il momento presente, con la sensazione che il relax sia una perdita di tempo, una delle mancanze d’amore e di considerazione peggiore che possiamo avere per noi stessi.

Concedersi il permesso di fermarsi

Perché è così difficile fermarsi? Perché sentiamo il bisogno di essere sempre produttivi? La risposta sta, almeno in parte, nella nostra paura di deludere.

Sempre vigili, con una sensibilità acuta verso ciò che ci circonda, un’attenzione costante a dettagli, emozioni e dinamiche, non ci accorgiamo a volte che entriamo in uno stato di allerta perenne in cui, che sia lavoro, relazioni o tempo libero, alla fine iniziamo a pensare di non essere abbastanza e di apparire molto meno adeguati di quanto vorremmo essere davvero.

Ma è proprio qui che risiede la chiave: riconoscere che il nostro valore non dipende esclusivamente da quanto facciamo o da quanto dimostriamo. Fermarsi non significa fallire, ma prendersi cura di sé per poter continuare a dare il meglio, senza logorarsi. È un atto di coraggio, un gesto che ci permette di ricaricare le energie, ritrovare la chiarezza mentale e, soprattutto, ricordare che siamo già abbastanza, anche quando non siamo “sempre attivi”.

COSE BELLE CHE HO IMPARATO LETTO IN QUESTA SETTIMANA:

“E’ solo quando ci fermiamo e facciamo il punto della situazione che possiamo stabilire le giuste priorità, ponendoci domande del tipo: – E’ davvero necessario? Se mi assumo anche questo impegno, a cosa dovrà rinunciare? Sto davvero vivendo la mia vita restando fedele ai miei valori o mi limito a reagire a ciò che mi accade intorno?-

(…) Spesso, le cose che meriterebbero la massima priorità hanno meno probabilità di essere scelte mentre molte di quelle meno importanti finiscono in cima alla lista”

J.Kolberg – K.G.Nadeau

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